Nepal – sulle orme di Giuseppe Tucci (I parte)

Il monsone che sta flagellando la parte meridionale del paese qui non è ancora arrivato, ciò nonostante la strada che corre tra Katmandu e Pokara è un susseguirsi di frane e smottamenti, veicoli fermi sul bordo della strada colpiti da massi, alcuni ribaltati a ridosso del burrone. La chiamano autostrada, ma quella che percorriamo è una via accidentata che serpeggia tra foreste e fiumi in un immensa nube di terra battuta alzata dal traffico intenso che toglie il respiro e costringe a tenere chiusi i finestrini.

Si incontrano pochissime macchine, in compenso file interminabili di vecchissimi e malconci camion indiani affollano per l’intera lunghezza il tragitto, superandosi con sorpassi rocamboleschi, gareggiando tra loro per chi ha il clacson più assurdo ed il colore più sgargiante della carrozzeria. Si incontra di tutto, dalle decorazioni a sfondo religioso, tra le quali primeggia Shiva col suo tridente, al camion di un devoto del Manchester United con tanto di gigantografia pittografica dello scudetto del club. In tutto questa confusionaria, asfissiante, carnevalesca traversata dura otto interminabili ore di auto.

Quando Giuseppe Tucci viaggiò in queste contrade, percorse a piedi lo stessa strada impiegando 15 giorni, all’epoca tutto era completamente diverso, quello che vide fu un paese fermo al medioevo, con una cultura millenaria ancora intatta che probabilmente nessun europeo, eccezion fatta per qualche sparuto missionario nel ‘700 aveva ancora visto. Ed era solamente l’inizio del suo viaggio.

Tucci è un nome che oggi dice poco, ma all’epoca del suo epico viaggio (erano gli anni ‘50) era considerato il maggior orientalista del mondo. Aveva già visitato più volte l’India, il Tibet ed il Nepal, fermandosi, però sempre a Kathmandu al fine di compiere studi storico – linguistici. Questa volta, raccolti fondi e attrezzature si stava addentrando in un paese misterioso. Tra gli scopi principali del suo viaggio c’era quello di esplorare il leggendario Regno di Lo, un reame semiindipendente al confine con il Tibet in cui nessun occidentale aveva messo piede e che per cultura e tradizioni doveva essere un punto di incontro tra la cultura Tibetana – buddista e la Nepalese – induista. Ne trasse un libro che ha fatto storia, Tra Giungle e Pagode. Ed è proprio con questo libro davanti gli occhi che inganno il tempo all’aeroporto di Pokara, in attesa del volo che ci condurrà a Jomson, uno dei percorsi aerei più pericolosi del mondo. Il cielo non si decide a schiarire. A vista i membri della compagnia aerea osservano lo sviluppo del tempo, in trepidante attesa di una finestra che permetta al bimotore di passare fra due ottomila ed entrare nella valle. Fremiamo dalla voglia di essere nel Mustang, come si chiama oggi, e ripercorrere a piedi lo stesso itinerario di Tucci. Neanche Si Ta, la nostra guida, è tranquilla nonostante sia un Rai, razza coraggiosa.  Si Ta non assomiglia né alla popolazione in parte Tibetana che abita queste zone, né tantomeno ai Newari, stanziati soprattutto nella zona della Capitale. Nonostante la carnagione olivastra ha tratti decisamente più asiatici. Condivide con la maggior parte degli abitanti del Nepal una statura piuttosto bassa, ma ha un grande orgoglio negli occhi. Il suo popolo abita le colline a sud del paese. Mentre gli traduciamo cosa dice la nostra guida sulle diverse etnie sorride divertito e con ampi gesti di conferma o diniego sottolinea inesattezze e verità. Scopriremo nel corso del viaggio che possiede un sottile senso dell’umorismo e un senso del servizio nei nostri confronti che a volte ci metterà in profondo imbarazzo. Gli chiedo della compagnia aerea. E’ stata fondata da due fratelli, poi uno è morto. “Incidente aereo?” azzardo “si”. Appunto. Qualcosa si muove, finalmente si parte.

Il nostro itinerario a piedi inizia da Kagbeni, in cinque giorni di cammino raggiungeremo la mitica città di Lo – Mantang, antica capitale del regno. Già qui a Kagbeni due costanti che ci seguiranno per tutto il viaggio si mostrano con tutta la loro imponenza: il Kali Gandaki, fiume nero, che scorre limaccioso lungo tutta la valle, custode dei riti, guardiano dei luoghi sacri. Proprio qui, a Kagbeni, un torrente che scende dalla città santa di Muktinath si getta nelle sue acque oscure. Ogni confluenza è sacra a queste genti. Quando la spedizione di Tucci passò in questo luogo egli ebbe modo di annotare: “Il luogo, come tutte le confluenze partecipa di una essenziale sacralità; il capitano, che è molto devoto, e Ciandra scendono sulle rive e con l’acqua attinta dove i due fiumi si confondono riempono una bottiglia e la sigillano con cura: la porteranno piamente alle loro case da tenere in serbo per la cerimonia della focaccia rituale (pinda) che una volta l’anno viene offerta ai mani degli antenati”. Accanto a questa lenta, nera, secolare massa d’acqua, la modernizzazione del paese corre molto più veloce. Lungo il fiume squadre di operai stanno costruendo argini per il passaggio di una strada. Li vediamo uscire sudici ed impolverati dai loro accampamenti, misere trincee scavate nella terra arida coperte da teloni gialli. Il prezzo del progresso da queste parti è ancora pesato in vite umane. Si Ta ci parla con orgoglio di questa nuova impresa avviata dal governo. Negli occhi, però, abbiamo scene già viste in tanti paesi in via di sviluppo e raramente queste storie hanno un lieto fine.

Davanti a noi si stende un paese arido, camminiamo interi giorni senza incontrare un albero, il paesaggio è dominato da rocce e cespugli. Immense pareti si ergono come bastioni immensi. Le uniche tracce umane sono i Chorten, sorta di cappelle campestri che solitamente contengono e custodiscono delle reliquie. Siamo ad altitudini elevate, in media tra i due  e i quattromila metri. Le bandiere di preghiera fanno da altare ad ogni passo montano, con il loro tipico rumore che ricorda il galoppo dei cavalli. Proprio questa è l’origine del loro nome Luntak, dove lun sta per vento (che da queste parti non manca mai) e tak significa cavallo. Mentre camminiamo immense vallate ci si parano davanti e panorami tanto vasti che l’occhio riesce a stento a carpirne l’ampiezza. Questo è il paese della libertà, degli antichi nomadi tibetani, delle distanze immense, dove tutto appare enorme e lontanissimo, dove i picchi si stagliano imponenti, e i sentieri sembrano arditamente disegnati su fianchi impercorribili.  L’uomo qui ha trovato un ambiente costruito come una sfida continua. Il tempo, il possesso hanno preso forme completamente diverse rispetto all’occidente. Che senso ha la fretta quando la natura ti pone davanti ostacoli anche nelle distanze più brevi?

Entriamo nella guest House, un odore penetrante misto di fumo, cucinato e chissà cos’altro ci assale; è il secondo giorno di cammino e siamo giunti a Samar, che Tucci mirabilmente descrive come poche case appollaiate in una gola racchiusa fra due groppe di monte aureolate dalle rovine di templi e castella. Qui poche case significa letteralmente sei o sette case, costruite in pietra. Le più grandi da quando è arrivato il turismo, si sono convertite in una specie di alberghi per viandanti, sono costituite da una corte centrale e da un numero variabile di stanze che vi si affacciano, ormai siamo abituati a quanto questi luoghi possano essere spartani. Raramente troviamo acqua calda, qualche volta neanche l’acqua corrente. I bagni sono per lo più buchi nel pavimento di terra battuta, con il secchio e un mestolo come scarico. Ma stavolta dobbiamo adattarci ulteriormente, non ci sono posti nelle stanze riservate ai viaggiatori, ci sistemano in quelle destinate ai portatori, con letti duri e bagno nell’orto. Ci laviamo in un ruscello che canta cristallino e freddo nell’orto; l’alternativa è una sorta di fontanile comune nell’atrio. Una specie di vittoria dell’essenzialità prende il sopravvento. Qui non ci sono comodità che abbiano senso. Gustiamo affamati il nostro Dal Bhat, piatto unico composto da riso, verdure e, nei momenti migliori un po’ di carne. Ogni giorno. Sono i gesti, i sorrisi, i bambini che ti guardano stupiti mentre mangi ciò che crea il pasto. Momento di riposo, di confronto, di conoscenza intriso di sacralità e spensieratezza. In quest’ottica cosa importa se hai appena visto le tue verdure cucinate per terra in condizioni igieniche tali da creare scene di panico generali in qualunque ASL dell’occidente? O se fuori dalla casa tibetana in cui sei arrivato per pranzo pende attaccato ad un albero la carcassa di un vitello appena scuoiato, mentre tu partecipi alla preparazione dei momo su un pavimento tutto terra e polvere? [continua]

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