I suoni dimenticati delle Alpi Apuane

Nell’abbraccio sismico di un oceano scomparso, le Alpi Apuane si levano in alto come un’onda pietrificata dal Tirreno che si infrange contro il cielo, scolpita in millenni di silenzi.

I SUONI DIMENTICATI DELLE ALPI APUANE: “UN ANTICO DIALOGO TRA ROCCIA E SILENZIO”
di Michael Gaddini

Le Alpi Apuane non sono semplici montagne. Sono degli “archivi di memoria geologica” dove ogni crepaccio sussurra storie e le valli custodiscono un silenzio particolare: non assenza di suoni, ma presenza distillata. Qui il fruscio del vento tra i faggi non copre, ma svela. Il gracchio delle cornacchie non disturba, ma punteggia il tempo. È un silenzio che non si ascolta con le orecchie, ma con le ossa.

La Pania della Croce – mia regina di pietra – non si limita a dominare l’orizzonte. È una soglia. A 1859 metri, dove l’aria vibra di trasparenza, accade qualcosa di sottile: la Corsica all’orizzonte non è un miraggio ottico, ma un promemoria. Ci ricorda che ogni vetta è un faro per naufraghi terrestri, che ogni panorama a 360 gradi è in realtà un cerchio magico dove spazio e tempo si annodano.

Nel cercare la luce perfetta per fotografarla, ho compreso l’inganno: la Pania non vuole essere catturata, bensì abitata. L’ho scoperto ai piedi del Monte Rovaio, dove una panchina solitaria – trono di muschio e licheni – mi ha costretto a deporre la macchina fotografica. Seduto accanto allo spettro di Fosco Maraini, ho finalmente udito il vero linguaggio delle Apuane: non quello delle forme, ma delle pause. L’etnologo-fotografo che inseguiva mondi lontani sapeva, forse, che proprio qui, tra queste pieghe di calcare, si nascondeva l’Oriente interiore.

Isola Santa non è un borgo, ma un’eco. Tra case di pietra che sfidano la gravità del tempo, ho percepito il paradosso: più le cime incombono, più l’anima si espande. Salendo verso il Puntato, dove gli ultimi alpeggi resistono come sentinelle, ho compreso che queste montagne non si conquistano scalando, ma riconoscendosi. Ogni passo sul sentiero era un tasto del pianoforte interiore: il clic dello zaino, il respiro sincopato, il tonfo del bastone da trekking componevano una sinfonia effimera.

La leggenda dell’Omo Morto rivela la verità segreta delle Apuane: queste montagne sono specchi. Il giovane pastore trasformato in gigante di pietra non è un sacrificio, ma un’illuminazione. Il suo volto scolpito nel calcare ci sussurra che amare significa diventare paesaggio. Ogni cresta nasconde un desiderio fossilizzato, ogni valle è una ferita d’amore trasformata in bellezza.

Camminando, ho smesso di cercare panorami. Le vere vette erano altrove: nel profumo di resina che brucia nel camino di un rifugio, nel sibilo di un falco che disegna parabole sopra i miei dubbi, nel sussulto della roccia quando il sole la abbandona al crepuscolo. Le Apuane non si lasciano raccontare, ma trasfusano. Lasciano nelle vene del viandante una malinconia antica come la loro pietra, e una domanda: siamo noi a guardare le montagne, o sono loro che ci scolpiscono lo sguardo?

“I suoni dimenticati” non appartengono alle Apuane, ma a noi. Sono le note smarrite del nostro silenzio interiore, che solo qui, tra queste rocce implacabili e compassionevoli, ritrovano la loro accordatura.

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