I suoni dimenticati delle Alpi Apuane

Nell’abbraccio sismico di un oceano scomparso, le Alpi Apuane si levano in alto come un’onda pietrificata dal Tirreno che si infrange contro il cielo, scolpita in millenni di silenzi.

Le Alpi Apuane non sono semplici montagne. Sono degli “archivi di memoria geologica” dove ogni crepaccio sussurra delle storie. Qui il fruscio del vento tra i faggi “non copre”, ma svela. Il gracchiare dei Corvidi non disturba, ma punteggia il tempo. È un silenzio che non si ascolta con le orecchie, ma con le ossa.

La Pania della Croce – mia regina di pietra – non si limita a dominare l’orizzonte. A 1859 metri dal mare, l’aria in cima alla Pania vibra di trasparenza, ed è proprio tra il tramonto e l’alba che accade qualcosa di sottile: la Corsica all’orizzonte non è un miraggio ottico, ma un promemoria. Ci ricorda che ogni vetta è un faro per naufraghi terrestri, che ogni panorama a 360 gradi è in realtà un cerchio magico dove spazio e tempo si annodano. Nel cercare la luce perfetta per fotografarla, ho compreso l’inganno: la Pania della Croce non vuole essere catturata, bensì abitata. L’ho scoperto ai piedi del Monte Rovaio, dove una panchina solitaria mi ha costretto a rallentare fino a fermarmi, deporre la macchina fotografica e godermi il panorama. Seduto accanto allo spettro di Fosco Maraini, l’etnologo-fotografo che inseguiva mondi lontani, ho finalmente udito il vero linguaggio delle Apuane più selvagge.

“I suoni dimenticati” non appartengono solo alle Apuane, ma anche a noi. Sono le note smarrite del nostro silenzio interiore, che solo qui, tra queste rocce implacabili e compassionevoli, ritrovano la loro accordatura.

Come nel borgo di Isola Santa: tra case di pietra che sfidano la gravità del tempo, ho percepito il paradosso: più le cime incombono, più l’anima si espande. Salendo verso il Puntato, dove gli ultimi alpeggi resistono come sentinelle, ho compreso che queste montagne non si conquistano scalando, ma bensì osservandole. Ogni passo sul sentiero era un tasto del pianoforte interiore: il clic dello zaino, il respiro sincopato, il tonfo del bastone da trekking componevano una sinfonia effimera.

La leggenda dell’Omo Morto rivela la verità segreta delle Apuane: Il giovane pastore trasformato in gigante di pietra non è un sacrificio, ma un’illuminazione. Il suo volto scolpito nel calcare ci sussurra che amare significa diventare paesaggio. Ogni cresta nasconde un desiderio fossilizzato, ogni valle è una ferita d’amore trasformata in bellezza.

E’ stato grazie all’osservazione consapevole che ho smesso di inseguire le vette. Le vere cime erano altrove: nel profumo di resina che brucia nel camino di un rifugio, nel sibilo di un Falco che disegna parabole sopra i miei dubbi, nel sussulto della roccia quando il sole la abbandona al crepuscolo… Le Alpi Apuane lasciano nelle vene del viandante una malinconia antica come la loro pietra, e una domanda: siamo noi a guardare le montagne, o sono loro che scolpiscono il nostro sguardo?

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